domenica 17 gennaio 2010

DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA - 2



Ma, buon Dio! che storia è questa? Come diremo che si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire; non essere governati, ma tiranneggiati; senza che gli appartengano né beni né parenti, né mogli né figli, né la loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le licenziosità, le crudeltà, non di un esercito, non di un’orda barbara, contro cui bisognerebbe difendere innanzitutto il proprio sangue e la propria vita, ma di uno solo.

E non di un Ercole né di un Sansone, ma di un solo omuncolo, molto spesso il più vile ed effeminato della nazione; non avvezzo alla polvere delle battaglie, ma a malapena alla sabbia dei tornei; non solo incapace di comandare gli uomini con la forza, ma in imbarazzo già a servire vilmente l’ultima donnicciola! Chiameremo questa vigliaccheria? diremo che coloro che servono sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro persone non si difendono da un’altra, questo è strano, ma tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente che è mancanza di coraggio.

Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? Se si vedono, non cento, non mille uomini, ma cento paesi, mille città, un milione di uomini non assalire uno solo, che li tratta nel migliore dei casi come servi e schiavi, come potremmo chiamare questa? Vigliaccheria?

Ora, naturalmente in tutti i vizi ci sono dei limiti, oltre i quali non possono andare: due uomini, e forse anche dieci, possono temere uno solo; ma se mille, un milione, mille città non si difendono da uno solo questa non è vigliaccheria, perché non arriva fino a questo punto; proprio come il coraggio non arriva fino al punto che uno solo dia la scalata ad una fortezza, assalga un esercito, conquisti un regno.

Dunque quale vizio mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per il quale non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?


Si mettano cinquantamila uomini armati da una parte e altrettanti dall’altra; li si schieri in battaglia e li si faccia scontrare, gli uni liberi, combattenti per la loro libertà, gli altri per toglierla loro.

A chi si pronosticherebbe la vittoria? Chi andrà al combattimento con più coraggio, quelli che sperano come ricompensa di salvaguardare la loro libertà, o quelli che come contropartita dei colpi inferti o ricevuti possono aspettarsi solo la schiavitù altrui? Gli uni hanno sempre davanti agli occhi la felicità della vita passata e l’aspettativa di una gioia simile per l’avvenire; non pensano a quel poco che patiscono il tempo che dura una battaglia, ma a quello che dovranno sopportare per sempre loro stessi, i loro figli e tutta la discendenza.

Gli altri non hanno niente che li imbaldanzisca, se non un pizzico di bramosia che si smussa subito contro il pericolo e che non può essere tanto ardente da non spegnersi, forse, alla minima goccia di sangue che esca dalle loro ferite.


Nelle battaglie così famose di Milziade, Leonida e Temistocle, avvenute duemila anni fa e che ancora oggi sono così presenti nella memoria dei libri e degli uomini come fosse accaduto l’altro ieri, che furono combattute in Grecia per il bene dei Greci e come esempio per il mondo intero; ebbene, cosa diede ad un così piccolo numero di uomini, quali erano i Greci, non il potere, ma il coraggio di resistere alla forza di navi che riempivano il mare intero, di sconfiggere tanti popoli, talmente numerosi che le truppe dei Greci non avrebbero, eventualmente, neanche potuto fornire dei comandanti agli eserciti nemici? In quei giorni gloriosi non si svolgeva tanto la battaglia dei Greci contro i Persiani, quanto la vittoria della libertà sul dominio, della lealtà sulla bramosia.

É straordinario sentir parlare del coraggio che la libertà mette nel cuore di chi la difende; ma ciò che avviene in tutti i paesi, fra tutti gli uomini, tutti i giorni, cioè che un uomo ne opprima centomila e li privi della loro libertà, chi potrebbe crederlo se lo si sentisse solo raccontare e non vederlo?

E se avvenisse solo in paesi stranieri ed in terre lontane, e lo si raccontasse, chi non penserebbe che sia piuttosto una favola e una invenzione e non una cosa vera? Per di più questo tiranno solo, non c’è bisogno di combatterlo, non occorre sconfiggerlo, è di per sé già sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla propria schiavitù.


Non bisogna togliergli niente, ma non concedergli nulla. Non occorre che il paese si preoccupi di fare niente per sé, a patto di non fare niente contro di sé. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano o piuttosto si fanno tiranneggiare, poiché smettendo di servire ne sarebbero liberi.

È il popolo che si assoggetta, che si taglia la gola e potendo scegliere fra l’essere servo e l’essere libero, lascia la libertà e prende il giogo; che acconsente al suo male, o piuttosto lo persegue. Se gli costasse qualcosa recuperare la libertà, non lo inciterei, sebbene l’uomo non dovrebbe avere niente di più caro che affermare il suo diritto naturale e, per così dire, da bestia ritornare uomo.

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